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Il revisore non rientra tra i soggetti qualificati del reato di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario ma può rispondere solo in veste di estraneo secondo le norme generali sul concorso
Stefania Barone
I giudici della quinta sezione penale della Corte di Cassazione si sono pronunciati sul tema della bancarotta impropria societaria e, in particolare, per quanto rileva ai fini della presente disamina, sulla responsabilità penale dei revisori.
Il giudizio di merito aveva portato alla condanna dei tre imputati per concorso nel delitto di bancarotta impropria da reato societario, in relazione al fallimento di una società per azioni. In particolare, gli imputati erano stati ritenuti colpevoli del delitto previsto dall'art. 223, comma 2, n. 1 della Legge Fallimentare, in connessione con il reato di falso in bilancio (art. 2621 c.c.) commesso dai revisori contabili negli anni 2005, 2006 e 2007, e, per tutti, incluso il presidente del Consiglio di Amministrazione della società fallita, in riferimento al bilancio del 2008.
I primi due, come concorrenti esterni, avevano svolto l'incarico di revisori contabili, redigendo le relazioni sui bilanci consolidati e d’esercizio menzionati; l’ultimo, come Presidente del Consiglio di Amministrazione della società fallita.
Gli imputati avevano impugnato la sentenza tramite i rispettivi avvocati, presentando diversi motivi di ricorso per violazione di legge e difetti di motivazione. In particolare, contestavano la sussistenza del reato in questione per la condotta dei revisori, sostenendo che essa rientrasse invece nell’art. 2624 c.c. (la norma applicabile e vigente all'epoca dei fatti) e denunciavano una violazione di legge riguardo all'elemento soggettivo del reato attribuito al Presidente del CdA.
Per i revisori, inoltre, le relative difese affermavano che il falso nella relazione costituisse un reato “proprio” dei revisori, previsto all'epoca dall’art. 2624 c.c., distinto e non concorrente con il falso in bilancio commesso da amministratori e sindaci, disciplinato dall’art. 2621 c.c..
Evidenziavano, inoltre, come la Corte di appello avrebbe aggirato la suddetta questione affermando che i revisori concorrono nel reato fallimentare, ma non anche in quello societario presupposto. L’assunto sarebbe insostenibile perché il fatto storico che dà luogo al delitto di cui all’art. 223, co. 2, n.1, legge fall. deve sempre identificarsi nella condotta prevista dall’art. 2621 c.c..
Inoltre, la condotta di falso nella relazione di revisione costituisce un posterius rispetto alla predisposizione del bilancio, sicché sarebbe causalmente irrilevante; del resto, l’affermata influenza della relazione falsa sull’approvazione dei bilanci degli anni successivi rimarrebbe un mero assunto sfornito di ragioni a sostegno.
Detto motivo coglie nel segno, per come di qui a breve verrà esaminato.
Preliminarmente, gli Ermellini hanno delineato i limiti temporali e oggettivi della fattispecie normativa applicabile al caso di specie, osservando che i fatti-reato rientravano, ratione temporis, nella disciplina dell'attività di revisione precedente alla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 39 del 2010; si riferivano alla formulazione dei reati societari antecedente alle modifiche apportate con il D.Lgs. n. 69 del 2015; e coinvolgevano una società non quotata in borsa.
I giudici della Suprema Corte di Cassazione, come anche autorevole dottrina sul punto della responsabilità dei revisori, hanno sottolineato che nel delineare le fattispecie di bancarotta impropria il legislatore ha inteso rafforzare l’imposizione di particolari doveri, correlati a penetranti poteri, posti dalla normativa civilistica a carico di determinati soggetti per la tutela dell’impresa individuale o della società, dei soci e dei creditori sociali.
Ancora, il legislatore, ha quindi tenuto conto della somma dei poteri che si concentrano nell’organo interno di gestione (che governa i meccanismi societari, è informato delle notizie più riservate, ha accesso alle fonti di finanziamento, domina le attività patrimoniali, effettua le scelte operative, ecc.) e in quello, sempre interno, di controllo (eletto dalla stessa maggioranza assembleare che esprime gli amministratori, vale a dire i soggetti la cui attività è assoggettata al controllo).
Ma a tutto ciò, il revisore, figura esterna agli organi societari, rimane estraneo (soprattutto nel sistema precedente alla riforma del 2010).
Con ciò, non si esclude che il revisore possa fornire il proprio apporto all’autore qualificato nella commissione del reato di falso in bilancio (ad esempio assicurando allo stesso una relazione positiva) e, conseguentemente, di quello di bancarotta societaria.
Tuttavia, è doveroso ribadire, che si tratta di “concorso” che passa attraverso le ordinarie forme di cui all’art. 110 cod. pen. (e relativi oneri probatori) e non, invece, attraverso una non consentita combinazione di altre norme incriminatrici, foriera di inammissibili scorciatoie probatorie.
Così, nel caso del concorrente morale il contributo causale può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso), che impongono al giudice un obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 c.p., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà.
In sintesi, la condotta sanzionata dal reato di falso nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale ha sempre natura commissiva, anche nel caso in cui si sostanzi nell’occultamento di informazioni, atteso che postula, pur sempre, il compimento di un’azione, consistente nella stesura della relazione.
Inoltre, il reato proprio di falso nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale, disciplinato, all’epoca dei fatti, dall’abrogato art. 2624 cod. civ. (e attualmente previsto dall’art. 27 d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), non può rappresentare ex se una modalità di concorso di persona nei reati, egualmente propri, di bancarotta societaria, di cui all’art. 223, comma secondo, n. 1, legge fall e di false comunicazioni sociali, di cui all’art. 2621 cod. civ.
Infatti, le condotte accertate dai giudici di merito e addebitate agli imputati consistevano in false attestazioni di regolarità dei bilanci e nell’omettere informazioni rilevanti sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, vale a dire condotte integranti l’elemento materiale tipizzato dall’art. 2624 c.c. (reato non contestato e prescritto), che non ha alcuna attinenza con l’art. 2621 c.c. (falso in bilancio) né con la L. Fall., art. 223 comma 2, n. 1, (bancarotta societaria) e che, per tale ragione, non può ex se rappresentare una modalità di concorso nei ridetti reati propri.
Invero, neppure il vigente art 27 d.lgs. n. 39/2010 è esente da critiche e problematiche connesse alla formulazione della norma. Infatti, anche per la nuova disposizione, autorevole dottrina rileva il deficit di tassatività della descrizione delle condotte. In particolare, è stato evidenziato come il falso non sia collegato ad alcuna soglia di non punibilità o di rilevanza, nonostante l’attività del revisore si connoti per la c.d. “significatività revisionale”.
Ad ogni buon conto, gli Ermellini, nel caso di specie, risolvono la questione posta al loro esame affermando che il revisore esula dal novero dei soggetti qualificati ex art. 223 legge fall., sicchè può essere chiamato a rispondere del reato di bancarotta societaria solo in veste di estraneo, secondo le norme generali sul concorso.
I Supremi Giudici riconoscono, quindi, l'errore commesso dai giudici di merito che, sforzandosi di individuare obblighi diversi da quelli attinenti ai contenuti della relazione, sono riusciti solo a indicare profili immaginati e privi di rilevanza o perché postulano obblighi insussistenti o perché si riferiscono a mancate comunicazioni ad amministratori o sindaci la cui rilevanza causale è pressoché nulla, dato che tutti potenziali destinatari della segnalazione erano i principali autori del reato.
Non solo. Evidenziano come l'ampia ed esaustiva esposizione degli elementi di prova raccolti non consente di far emergere concreti elementi a sostegno di un contributo partecipativo dei revisori nel reato proprio degli amministratori.
Per tali ragioni, la Suprema Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti dei revisori, con formula “per non aver commesso il fatto”.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen., Sez. V, 30 novembre 2023, n. 47900)
Stralcio a cura di Lorenzo Litterio
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